LA PROVINCIA DI COSENZA

 La provincia di Cosenza si estende su una superficie complessiva di 6.649,73 Km2 nella zona settentrionale della Calabria. Il territorio è in buona parte montuoso, con massicci e gruppi isolati, separati da valloni o da selle. Al confine con la Basilicata si eleva il massiccio del Pollino che culmina a 2.267 m. nella Serra Dolcedorme e che ospita una notevole diversità di ambienti naturali così da risultare uno dei complessi montuosi più significativi del nostro paese dal punto di vista naturalistico e paesaggistico. Il massiccio è costituito da rocce calcaree, mentre le colline e le basse vallate sono formate da marne, sabbie e conglomerati. A sud, lungo il versante tirrenico, si ergono i Monti di Orsomarso (o massiccio del Pellegrino), simili al Pollino, mentre la Catena Costiera, composta prevalentemente di rocce metamorfiche, si allunga verso sud tra la costa e la valle del Crati, fino a raggiungere il basso corso del Savuto. La Valle del Crati, che separa nettamente la Catena Costiera dall’altipiano della Sila, è una profonda fossa, longitudinale al sistema appenninico, che il fiume Crati percorre a valle di Cosenza, prima di attraversare l’estesa piana di Sibari che si apre tra il Pollino e la Sila. L’ altopiano silano è una vasta regione, rivestita da fitti boschi di pino laricio e faggio, con un’altitudine media compresa tra i 1.200 e i 1.400 m. Presenta pendii scoscesi ai margini e una superficie dolcemente ondulata, attraversata da dorsali e groppe arrotondate. Le formazioni rocciose dominanti sono i graniti. A sud la provincia di Cosenza confina con quelle di Crotone e di Catanzaro. Nelle fasce costiere il clima è tipicamente mediterraneo, con inverni miti e piovosi ed estati calde e asciutte; procedendo verso l’interno si accentuano progressivamente i caratteri del clima continentale, in particolare sui rilievi più elevati dove, comunque, a inverni freddi si alternano estati piuttosto fresche. Le precipitazioni sono abbondanti nelle aree più elevate, specialmente in quelle del versante tirrenico, ma si riducono sensibilmente fino a valori modesti nelle pianure e nelle zone ioniche. È  proprio nel paesaggio calabrese, così vario e articolato, che è possibile, negli spazi ampi al di sopra delle rocce più alte, cogliere il volo lento e potente dei grandi rapaci o quello battente dei falchi. Il calmo volteggio, che improvvisamente può trasformarsi in una picchiata vertiginosa, ci segnala la presenza di questi padroni dell’aria, da sempre temuti e ammirati. Sono i predatori, i cosiddetti “nocivi” perseguitati dai contadini e dai pastori, gli stranieri che vengono da lontano, come il Falco pecchiaiolo, localmente chiamato Adorno, che attraversa a maggio, bersagliato dalle fucilate, lo stretto di Messina. Detestati o ricercati, fatti oggetto di protezione o di persecuzione sistematica, investiti da atavici pregiudizi, simbolo di regalità o portatori di malaugurio, i rapaci si collocano, nel mondo animale, al vertice della catena alimentare. E risentono degli interventi che l’uomo attua nell’ ambiente alterando equilibri che la natura ha provveduto ad instaurare con tempi lunghi e lenti. La presenza dei rapaci su un territorio e il loro stato di salute sono indicatori biologici importanti del grado di alterazione dell’ambiente in cui vivono. Pur se tutelati dalla legge, i rapaci sono tra le specie che oggi meritano maggior cura e protezione, se non si vuoi correre il rischio che alcuni di essi scompaiano per sempre dai nostri cieli. Perseguitati dai bracconieri, sovente vittime di esche avvelenate, sono spesso in regresso, soprattutto laddove si verificano pesanti e negative modificazioni ambientali. La diminuzione delle loro prede naturali o il prelievo dal nido dei pulii per collezionismo o per commercio, sono motivo dell’impoverimento numerico di questi uccelli. Ma non meno dannose sono altre cause indirette. Le strade innanzi tutto, quelle che squarciano boschi, tagliano pendici e prati, sventrano strati di roccia, predisponendo il territorio a erosioni e frane inevitabili ed aprendo zone, prima tranquille, al disturbo, alla caccia, agli incendi. Le costruzioni: e cioè quell’edilizia selvaggia ed incontrollata che nella nostra regione ha devastato in modo irreversibile le coste e che avanza ineluttabile verso la montagna, prendendo il posto degli alberi, stravolgendo panorami intatti e portando con sé traffico, inquinamento, rumore, fili elettrici, recinzioni, acquedotti, gasdotti. E poi gli impianti per lo sci, le funivie, le scalate, i deltaplani, i parapendii, le cave e le miniere, gli impianti idroelettrici, le dighe. E quel che non fanno i disboscamenti e la distruzione del sottobosco, lo causano gli incendi, in grado di devastare habitat che avranno bisogno di tempi lunghissimi per ricostituirsi, costringendo innumerevoli specie di animali a cercare altrove il cibo e i siti di nidificazione. C’è poi il grande capitolo degli inquinamenti: dell’aria, dell’acqua, del suolo. Lungo un percorso che parte dai piccoli insetti avvelenati con la chimica agricola, la morte avanza e si concentra nei predatori che sono in vetta alla piramide alimentare. Ma ci sono anche veleni più mirati per i rapaci da annientare: il famoso “boccone” che, insieme a trappole, lacci e tagliole fa parte dell’arsenale di caccia di chi continua a considerare “nocivi” i rapaci. Alla caccia è da addebìtare, purtroppo, la causa principale della morte o del ferimento dei rapaci. È veramente drammatica la portata di quel fenomeno che va sotto il nome di bracconaggio. Incuranti delle leggi che considerano questi volatili specie particolarmente protette, i bracconieri mettono in atto una vera e propria carneficina che si perpetua nel corso dell’intero anno, con un indice di punibilità prossimo allo zero, vista l’inadeguatezza numerica degli addetti al controllo in rapporto alla vastità e all’impervietà delle aree da controllare e ad un numero di bracconieri che non accenna a diminuire. Secondo una ricerca condotta da Birdlife International e dalla LIPU, il 43% di tutte le specie di uccelli europei è in declino. Alcuni rapaci rischiano davvero di non esserci più nel giro di pochi anni. È il caso, in Italia, del Capovaccaio, relegato ormai in alcuni siti della Calabria e della Sicilia, ridotto a poche coppie nidificanti; o dell’Aquila del Bonelli o del Gufo reale nel Centro-sud. Finalmente dal 1991 l’Italia si è dotata di una legge-quadro, la n. 394, sulle Aree Naturali Protette. È dunque possibile impostare in modo organico una valida politica della conservazione della natura e dei parchi naturali, intendendo la conservazione come uno strumento fondamentale di pianificazione e di gestione, un diverso modello di governo del territorio, compatibile con l’ambiente naturale. Ciò al fine di promuovere uno sviluppo economico e sociale rispettoso della conservazione e della tutela delle risorse naturali, ma allo stesso tempo capace di favorire l’affermazione di nuove professionalità nel campo dei beni culturali e ambientali e delle attività turistiche eco-compatibili. È indispensabile che l’istituzione di parchi, riserve, aree protette avvenga secondo un piano integrato che assicuri la continuità e la diversità biologica. Vanno promossi piani d’azione per reintrodurre e conservare specie in via di estinzione, bisogna dedicare molte energie alle iniziative’di sensibilizzazione della gente, all’educazione ambientale nelle scuole, all’informazione che veicoli conoscenza e amore per la natura. È proprio in quest’ottica che abbiamo lavorato a questa pubblicazione che tratta essenzialmente gli uccelli rapaci della Calabria, con particolare riferimento alla provincia di Cosenza. Un rilievo 1specifico è riservato al C.R.A.S. (Centro di Recupero Animali Selvatici) di Cosenza, che ormai da un decennio svolge il compito primario di provvedere al recupero e alla riabilitazione dei tanti selvatici feriti, con l’obiettivo di riportarli, liberi, nel loro ambiente naturale.

 

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